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Resistere
Pedalare Resistere Percorsi di Liberazione 3° edizione nazionale - 2012
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Sofia Sofia pedalava svelta verso casa, che era già l’imbrunire. Spingeva con forza sugli zoccoli che il padre aveva messo insieme intagliando un ceppo di faggio e recuperando la pelle di una vecchia borsetta della mamma. Intorno c’erano solo campi di pannocchie e voli di pipistrelli. Davanti a lei la sagoma del Cansiglio si faceva, man mano che pedalava, più grande e più scura. Aveva già quasi diciotto anni, Sofia: sembrava più giovane, asciutta com’era, ma era già forte come il fil di ferro. Aveva fatto tardi perché si era persa dietro una confusione di pensieri che affollavano la sua giovane mente. Si era anche persa attraversando i palù del Piave ed era stata costretta a tornare indietro un paio di volte a ritrovare la strada. Veniva da Treviso, dove era andata a parlare con il professore che doveva prepararla a sostenere l’esame di maturità, visto che la scuola era difficile da frequentare a causa della guerra, dei bombardamenti, dei pericoli continui. Il professore le era subito riuscito simpatico, ma le aveva fatto un sacco di discorsi strani. Le aveva parlato del suo vecchio professore di latino dell’Università, che si chiamava Concetto Marchesi, che non era solo un grande maestro di scienza, ma soprattutto un grande uomo di ideali. E questo professore diceva che era venuto il momento in cui non bastava più studiare, in cui bisognava agire, lottare contro l’invasore tedesco e contro i servi fascisti. Sofia sapeva benissimo che con l’8 settembre di quel 1943, che tutti dicevano terribile (ma come può essere così brutto l’anno in cui si compiono 18 anni!), era successo un gran ribaltone; ma non riusciva a capire come gli alleati di poco tempo prima potessero diventare all’improvviso degli invasori e i fascisti dei banditi. Lei era cresciuta nel culto di Mussolini; come poteva tutto quello che le avevano insegnato sino ad allora tradursi in un’unica, colossale menzogna? Era così avviluppata dentro i suoi pensieri, che solo all’ultimo momento si avvide – dio che tremo! – dell’irrompere sulla strada da un campo di granturco di un uomo, giovane, scarmigliato, vestito di un’uniforme stracciata, due occhi neri pieni di paura, certo più di quanta in quel momento ne provasse lei. Si guardarono per un attimo, come a cercare di capire chi essi potessero essere l’uno rispetto all’altra. Fu il soldato a parlare per primo: “Sto scappando. Sai dirmi da che parte sta casa mia, la Sicilia?” A Sofia venne quasi da ridere, ma indicò ugualmente una generica direzione dietro di sé, dalla parte opposta alla nera mole del Cansiglio. Il giovane ringraziò e fece per proseguire nella direzione indicatagli, ma Sofia lo trattene per un braccio, e avrebbe quasi voluto dargli una carezza su quella sua zazzera nera e scarruffata; tirò fuori dalla borsa un cartoccio con dentro una patata lessa, un po’ di polenta e un pizzico di sale – la merenda che non aveva nemmeno avuto in mente di mangiare per via dei troppi pensieri – e glielo porse, senza dire nulla. Neanche lui disse nulla, semplicemente sorrise, prese in mano il cartoccio e proseguì per la sua strada. In quel momento Sofia decise che avrebbe dato ascolto al suo professore, che sarebbe diventata una staffetta partigiana; ancora non conosceva quel Concetto Marchesi – sui cui libri in seguito avrebbe trascorso tante sudate eppure liete ore – ma sapeva che aveva ragione, perché non era giusto, non era possibile che un figlio dell’Italia dovesse sentirsi braccato nella sua stessa terra , per colpe non sue. P.S. Qualche tempo dopo, nel corso di una missione su al Cansiglio, Sofia ebbe modo di incontrare il giovane soldato siciliano. Lui le disse che, quella stessa sera in cui l’aveva incontrata, aveva poi trovato due ex commilitoni, che gli avevano chiesto se voleva unirsi a loro, che andavano in montagna a fare i partigiani. Lui allora si disse che se una ragazza gli aveva dato la sua merenda invece di scappare a denunciarlo, era giusto combattere per lei per una patria migliore. Questa volta si misero a ridere di gusto tutti e due. Tina (detta Gabriella) “La cosa più importante, a 17 anni, è la scuola!” Così aveva detto papà. Ma adesso, mentre trascinava la bicicletta per quel maledetto troso di campagna, con sopra quella porca valigia che pesava più della Rossella, l’amica più cicciona che aveva, Tina (detta Gabriella) sapeva benissimo che non ce l’avrebbe mai fatta ad arrivare a scuola in tempo per la prima campana. E se suo padre veniva a sapere che la figlia di 17 anni, che partiva da casa che era ancora notte fonda per correre i 25 chilometri e arrivare a scuola in tempo, se veniva a sapere che la figlia faceva ritardo … apriti cielo! “Cosa mi nasconde quella benedetta ragazza? Dove va? Con chi si vede?” No, no … non se ne parlava nemmeno. Aveva così deciso di spostarsi sulla vicina provinciale, anche se pericolosissima per via dei possibili posti di blocco. In compenso, sulla provinciale avrebbe potuto riprendere a pedalare; e magari poteva anche passare Luigino, sul suo O.M. da robivecchi (“materiale ferroso strategico”, prego) che, come altre volte, l’avrebbe caricata su, bicicletta e valigia comprese. E invece, chi ti passa proprio in quel momento sulla provinciale? Un camion di tedeschi che non avevano niente di meglio da fare che dare fastidio a una povera ragazza in ritardo. “Ehi, bella sig-norina, non è bene fare tanta fatica così presto la mattina.” Un tuffo al cuore, quando il camion si era fermato poco più avanti, dove c’era uno slargo, e ne erano scesi due ragazzoni, alti, biondi, sorridenti, ma con il mitra che suonava forte e metallico, quando batteva sui bottoni dell’uniforme. Parlavano bene l’italiano, quei soldati; dovevano essere di Bolzano, bei ragazzi di montagna, bravi lavoratori e di carattere allegro. Ma li aveva ben visti quei “bravi ragazzi” diventare lupi, mentre costringevano lei e le sue compagne, e tutte le scolaresche di Bassano, ad assistere all’impiccagione dei partigiani dopo il grande rastrellamento del Grappa. Li aveva visti ghignare, mentre cercavano nuovo spazio sugli alberi di Viale Venezia, che non bastavano mai per i quarantadue corpi che si scalciavano grottescamente nell’agonia; tanti erano quei poveri cristi, già pieni di botte prima di dover sopportare l’ultima infamia. Altre volte Tina (detta Gabriella) se l’era vista brutta. Una decina di giorni prima s’era dovuta buttare in un fosso, bicicletta e tutto, per evitare una banda di brigatisti neri, ubriachi e in cerca di vittime, come belve assetate di sangue. A casa aveva dovuto inventarsi un sacco di storie per rassicurare un po’ la povera mamma che l’aveva vista arrivare tutta imbrattata di fango. Un’altra volta aveva dovuto questionare con un gruppo di partigiani di una brigata che non conosceva, che volevano portarle via i copertoni della bicicletta, perché c’erano le staffette che ne avevano bisogno – dicevano loro – e lei a insistere che era proprio una di quelle. Alla fine aveva tirato fuori la pistola, che doveva portare al suo comando, e quasi gliel’aveva spianata in muso, a quei deficienti. Ma adesso era un’altra cosa. Il soldato che aveva preso la valigia per caricarla sul camion, aveva esclamato: “Dio quanto pesa! Ma cosa c’è dentro, una bomba?” Tina (detta Gabriella) si era sentita svenire: nella valigia c’era una radio militare, su cui i suoi compagni facevano grande affidamento per poter comunicare con gli Alleati. “Ma quale bomba, – aveva risposto, facendo finta di ridere – ci sono soltanto i libri di scuola che sono riuscita a racimolare; c’è anche il vocabolario di latino.” “Ah, latino. – aveva allora detto un altro soldato – Meglio la guerra.” E giù a ridere tutti. Dopo aver superato strombazzando un posto di blocco delle brigate nere, l’avevano fatta scendere poco prima di arrivare a Bassano. Non volevano imbarazzarla di fronte alle compagne di scuola: quei “bravi ragazzi” forse pensavano alle loro sorelle che avevano lasciato a casa, lassù nei masi sparsi sui declivi alpini. L’avevano lasciata proprio vicino a posto dove avrebbe dovuto trovare il suo contatto e lasciargli la valigia. Naturalmente, il partigiano che l’aspettava, vedendola scendere da un camion di tedeschi, se l’era subito data a gambe come una lepre; ma adesso l’importante era arrivare a scuola in orario: la valigia l’avrebbe custodita Piero, il bidello, che era uno dei nostri. Al momento c’era un problema ben più importante da affrontare: il compito in classe e quella porca versione di latino – come aveva detto il tedesco? – che era meglio fare la guerra! Bruno [Racconto di Claudio Zanlorenzi] Bruno Ballan abitava a Santa Maria di Sala. Una bestia di uomo. Fisico da Carnera, abituato a lavorare per i campi tutto il giorno. Una domenica va a piedi a Scorzè: ha sentito di una gara di ciclismo lungo il Drizzagno, la strada che porta a Zero Branco. I ciclisti hanno tutti la maglia nera: è la Gara Ciclistica Fascista. Sono 80 km. Il giro si decide a Zelarino: il passaggio a livello si chiude e divide il gruppo. Maledetti passaggi a livello! Sono le favole del ciclismo d’altri tempi. Lui quel giorno si innamora della bicicletta. Ha 17 anni. Da allora quando può usa la vecchia e sgangherata bicicletta di suo padre. Taglia per caresoni, argini, trosi di campagna e non dimentica di passare per Sant’Angelo dove una moretta gli piace e lo aspetta, facendo finta di niente, davanti al cancello di casa. Dopo due anni si compra una ZARDO, fabbricata a Mogliano, un sogno per tutti i ciclisti della zona. Si iscrive anche al Circolo Ciclistico di Scorzè. E’ forte Bruno Ballan, non è veloce ma è uno che la strada non la patisce. Va come un trattore Landini, una volta messo in moto non si ferma più. E allora partecipa a gare e manifestazioni. Lo portano anche a Monza per la “Corsa di Ciclo Lancio bomba a mano”. Prende il secondo premio. Poi un giorno lo chiamano in municipio: una squadra di ciclisti della zona deve andare a Roma a salutare il DUCE. Perché il DUCE ha detto: “Mi piace il ciclismo perché è uno sport da poeti”; e poi: “Bisogna abituare gli italiani al moto, all’aria libera”. Bruno Ballan non è fascista, ma indossa la maglia nera e parte. Troppo bello lasciare Santa Maria di Sala e andare a Roma. Assieme ad altri quattro paesani in cinque giorni fa Rovigo, Ferrara, Bologna, Firenze, Roma. Al ritorno se la prende più comoda e, a una certa ora, quando vedeva la trattoria giusta, frenava e non c’era verso di farlo alzare da tavola. E poi, una volta a casa, i parenti e gli amici tutti a chiedere di Roma, di cosa aveva mangiato, di quanto costava la polenta in giro, della fatica. Il podestà invece voleva la relazione da inviare al Prefetto. Rideva Bruno Ballan quando pensava al viaggio a Roma in bicicletta. Rideva anche quella sera del giugno 1944, mentre pedalava per la campagna di Zero Branco dopo aver disarmato tre camicie nere all’osteria da Bimbari. Veloce e silenzioso sulla sua Zardo tornava a Santa Maria di Sala dove era il più giovane comandante partigiano della zona.
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